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di Centro Studi
È illegittima l’iscrizione alla Gestione Commercianti dell’amministratore di una società di capitali se l’INPS non prova l’effettiva partecipazione al lavoro aziendale.
Con la sentenza n. 9420/2023 del 25 ottobre 2023 il Tribunale di Roma ribadisce l’orientamento – ormai consolidato - della Corte di Cassazione (SS.UU. 3420/2010) secondo cui l’Istituto previdenziale deve provare la sussistenza dei requisiti di cui alla legge 22 luglio 1966, n. 613 e s. m., per l’iscrizione alla gestione commercianti del socio ed amministratore di s.r.l.
Secondo gli Ermellini, infatti, il socio ed amministratore di una società di capitali deve essere iscritto alla gestione commercianti unicamente se: a) titolare o gestore in proprio di imprese organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia; b) abbia la piena responsabilità dell'impresa ed assuma tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione; c) partecipi personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza; d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri e ruoli. L’onere probatorio della ricorrenza di tali requisiti è in capo all’INPS.
Il caso
La contribuente, pensionata dal 1° aprile 2010, era socia ed amministratrice, dal 2011, di una società che svolgeva attività di gestione di immobili di proprietà dei soci. La ricorrente aveva, con procura notarile institoria, conferito ad un terzo soggetto i poteri di gestione della società ed aveva, altresì assunto un lavoratore subordinato per tutte le attività di ordinarie occorrenti, delegando – di fatto – tutta l’attività lavorativa e gestoria della società a terzi.
Nello scorso mese di gennaio 2023, veniva notificato alla contribuente un avviso di addebito da parte dell’Istituto previdenziale concernente l’evasione della contribuzione alla Gestione Commercianti.
Al riguardo, prima di addentrarsi tra i passi della sentenza, è utile rammentare che ai sensi dell’art. 1, comma 203, legge n. 662/1992, l’obbligo di iscrizione nella gestione assicurativa degli esercenti attività commerciali di cui alla legge 22 luglio 1966, n. 613, sussiste per i soggetti che siano – congiuntamente – in possesso dei seguenti requisiti:
a) siano titolari o gestori in proprio di imprese che, a prescindere dal numero dei dipendenti, siano organizzate e/o dirette prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia, ivi compresi i parenti e gli affini entro il terzo grado, ovvero siano familiari coadiutori preposti al punto di vendita;
b) abbiano la piena responsabilità dell'impresa ed assumano tutti gli oneri ed i rischi relativi alla sua gestione. Tale requisito non è richiesto per i familiari coadiutori preposti al punto di vendita nonché per i soci di società a responsabilità limitata;
c) partecipino personalmente al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza;
d) siano in possesso, ove previsto da leggi o regolamenti, di licenze o autorizzazioni e/o siano iscritti in albi, registri o ruoli.
Sinteticamente, dunque, la normativa prevede un doppio requisito per l’iscrizione del socio di società di capitali alla gestione commercianti:
- uno di tipo oggettivo ovverosia che l’attività esercitata dalla società debba essere riconducibile al settore terziario e/o avere natura commerciale.
- uno di tipo soggettivo ovverosia che il socio deve svolgere all’interno della società un’attività caratterizzata dall’abitualità e dalla prevalenza.
I fatti di causa
A fronte della notifica dell’avviso di addebito di cui sopra da parte dell’Istituto previdenziale, la contribuente ha proposto ricorso innanzi al Tribunale di Roma, affidando le proprie doglianze ai seguenti punti:
1. Carenza del requisito soggettivo: la stessa non aveva mai svolto attività all’interno della società. Ne era prova i) la procura notarile a favore di terzo soggetto per tutta l’attività gestoria; ii) l’assunzione di un dipendente per tutta l’attività di ordinaria amministrazione; iii) la residenza in città diversa rispetto a dove la società svolgeva la propria attività; iv) la circostanza di essere in pensione dal 2011.
2. Carenza del requisito oggettivo: la società svolgeva unicamente attività di locazione di immobili di proprietà dei soci. Di tale attività veniva data prova attraverso la produzione di tutte le fatture, dei bilanci e Certificazioni Uniche della società per il periodo interessato. In questo senso si richiamava l’orientamento di legittimità per cui “in linea con il principio già espresso da questa Corte secondo cui la società di persone che svolga un’attività destinata alla locazione di immobili di sua proprietà e si limiti a percepire i relativi canoni di locazione non svolge un’attività commerciale ai fini previdenziali, a meno che detta attività non si inserisca in una più ampia di prestazione di servizi quale l’attività di intermediazione immobiliare” (Cass. n. 3145 dell’11 febbraio 2013; Cass. Civ. ordinanza 4 gennaio 2018, n. 126; Cass. Civ. ordinanza n. 4857 del 24 febbraio 2017). L’orientamento giurisprudenziale era stato altresì accolto dall’INPS con messaggio n. 2345 del 07/06/2017.
Si costituiva INPS deducendo che le medesime circostanze richiamate dalla ricorrente potessero essere utili al fine di presumere: i) l’esercizio di attività commerciale parte della società; ii) l’impegno della ricorrente caratterizzato da abitualità e prevalenza.
Inps, cioè, ha – erroneamente – dedotto che lo svolgimento di un’attività di tipo imprenditoriale nei termini richiamati da ricorrente avrebbe dovuto implicitamente indurre a ritenere la sussistenza del carattere prevalente e abituale del suo apporto. INPS non offriva alcuna prova a sostegno delle proprie deduzioni ritenendo che l’onere probatorio di dimostrare la non ricorrenza dei presupposti fosse in capo alla contribuente.
Le motivazioni del giudizio
Con articolata e ben motivata sentenza il Tribunale di Roma richiamava inizialmente la normativa ricordando che “occorre fare riferimento all’attività alla quale il soggetto dedica personalmente la sua opera personale in misura prevalente. E colui che nell'ambito di una società rivesta la qualità di socio, potrà essere iscritto nella gestione commercianti qualora in concreto risulti lo svolgimento dell’attività di commercializzazione in misura abituale e prevalente; l’onere della prova di tale circostanza rimane a carico dell'Inps che dovrà decidere sull'iscrizione all'assicurazione corrispondente all'attività prevalente” (tribunale di Roma Sent. 9420/2023 del 25/10/2023).
Incombe quindi sull’Istituto previdenziale che voglia iscrivere il contribuente alla Gestione Commercianti, l’onere di dimostrare che il socio/amministratore abbia in concreto lavorato con carattere di continuità e prevalenza all’interno della società (Cass. SS. UU. 3420/2010; Cass. SS.UU. 17076/2011; Corte Cost. n. 15/2012).
Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale operato, il Giudice rilevava che “atteso che, colui che nell'ambito di una società rivesta la qualità di socio, potrà essere iscritto nella gestione commercianti, solo qualora in concreto risulti lo svolgimento dell’attività in misura abituale e prevalente, si deve ritenere che non sia stato assolto l’onere della prova di tale circostanza, da parte dell' Inps, ai fini della individuazione della iscrizione all'assicurazione corrispondente all'attività prevalente (Cass. civ., 17 gennaio 2008, n. 854; nello stesso senso, 5 ottobre 2007, n. 20886; 8 gennaio 2008, n. 149, Cass. Civ. sez. lav. n. 15335/2008, N.3835/2016)” (Tribunale di Roma Sent. 9420/2023 del 25/10/2023). Segnalava, inoltre il Giudice Capitolino, che a fronte dell’impianto probatorio della ricorrente, l’assolvimento dell’onere probatorio in capo all’ente previdenziale avrebbe richiesto particolare rigore; che invero non era stato applicato.
Il Tribunale accoglieva, dunque, il ricorso ed annullava l’avviso di addebito.
Conclusioni e considerazioni
Non v’è dubbio che ormai l’orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità sia pressoché univoco: l’INPS è tenuto a dimostrare quale sia stata l’attività prevalente del contribuente allo scopo di iscrivere lo stesso ad una sola delle gestioni (separata o commercianti). L’Istituto, ai fini dell’iscrizione alla gestione commercianti, non può agire per presunzioni e deve dimostrare – in concreto – che il contribuente partecipa, in misura prevalente, anche con la propria forza lavoro all’attività commerciale della società di cui è socio ed amministratore.
Rimane sullo sfondo la questione della natura commerciale della società.
La questione è stata oggetto di numerose sentenze (Cass. n. 3145 dell’11 febbraio 2013; Cass. Civ. ordinanza 4 gennaio 2018, n. 126; Cass. Civ. ordinanza n. 4857 del 24 febbraio 2017), riprese anche dall’Istituto previdenziale con il messaggio 7 luglio 2017, n. 2345.
In accordo con tale orientamento, che ha escluso la natura commerciale dell’attività di che trattasi, il Tribunale ha dichiarato che “neanche emerge in termini univoci la circostanza che la società di cui essa è stata amministratrice abbia svolto una attività di ricerca e intermediazione immobiliare (cfr. docc. 5, 6 e 14), Sulla base di quanto risulta dai dati trasmessi alla Agenzia delle entrate attraverso le certificazioni uniche della società”.
Il Giudice, quindi, sembra sottintendere che solamente la ricerca e l’intermediazione rientrino nell’ambito di attività commerciale e non la mera locazione.
Purtuttavia, la valutazione del requisito oggettivo – in accordo con il principio della ragione più liquida – rimane esterna alla motivazione della sentenza in commento.
L’oggetto della questione merita, infine, un’ulteriore riflessione sull’attuale sistema dei ricorsi ammnistrativi e dell’istituto dell’autotutela che, purtroppo, non si dimostrano un efficace strumento deflattivo del contenzioso. Pur con le rivisitazioni recentemente operate con la Deliberazione del CdA 18 gennaio 2023, n. 8, l’Istituto previdenziale sembra non prendere in seria considerazione le potenzialità dello strumento, nonostante gli oltre 230 milioni di euro di spese legali connesse alla gestione di quasi 280.000 procedimenti giudiziari (Rendiconto sociale 2022).
L’avviso di addebito annullato dal Giudice capitolino era stato preventivamente oggetto sia di ricorso amministrativo che di istanza in autotutela, con incontrovertibili possibilità per l’Istituto di rinunciare al provvedimento illegittimo comminato senza incorrere in ulteriori spese di soccombenza. Procedimenti, questi, di cui ancora non si ha riscontro.
Più che un travolgente successo, anche stavolta, ci si trova dinnanzi all’ennesimo richiamo all’INPS a conformarsi alla normativa vigente.
Una disciplina, quella del contenzioso amministrativo, che a parere degli scriventi merita un’attenta rivisitazione normativa che non lasci risolvere in un nulla di fatto le rimostranze dei contribuenti.
Non può – allo stato attuale – comprendersi l’utilità di un sistema per cui sull’illegittimità di un atto della P.A. decida il medesimo Ente che ha emesso il provvedimento illegittimo, che veste alternativamente i panni di accusa, giudice ed esecutore.
In questo irragionevole gioco delle parti, l’unico vero appiglio per il contribuente diviene il contenzioso giurisdizionale, a dispetto di ogni logica di economicità della res pubblica.
A cura di
Avv. Iacopo Melendez
CdL Michele Siliato
Centro Studi