ANCL - Associazione Nazionale Consulenti del Lavoro

MyANCL Scopri il nuovo portale ACCEDI REGISTRATI

Approfondimenti consigliati, Ufficio legale

Salario minimo legale: quale impatto avrebbe in Italia?Analisi del progetto di legge unitario delle minoranze 29 Agosto 2023

Salario minimo legale: quale impatto avrebbe in Italia?

di Francesco Stolfa

 A cura dell'Avvocato Francesco Stolfa, Studio Legale Stolfa Volpe 

 

1. Il quadro normativo attualmente vigente in Italia e la direttiva europea.

Preliminarmente occorre chiarire che la problematica legata alla introduzione o meno del salario minimo per legge ha natura esclusivamente giuridica. Nessuna rilevanza assumono quindi i dati statistici sui livelli salariali reali praticati di fatto nel mercato del nostro lavoro. Gran parte dei casi, diffusissimi in Italia, di sottosalario corrispondono a situazioni illegali in cui una norma sul salario esiste ed è vincolante per le parti ma non viene applicata. Quel problema non si risolve certo cambiando la norma ma facendo applicare quella già esistente (con le ispezioni, con le cause o con le azioni sindacali). Il tema di questo mio intervento verte quindi sulla idoneità o meno del quadro normativo vigente in Italia ad assicurare minimi salariali decenti per tutti i lavoratori.

Esaminiamo quindi questo quadro normativo e l’incidenza che su di esso dovrebbe (o meglio: potrebbe) avere l’applicazione della direttiva europea 19 ottobre 2022 n. 2041 relativa, appunto, ai salari minimi adeguati. Il primo aspetto da sottolineare è che quest’ultima non impone alcun obbligo tassativo agli stati membri come chiariscono i commi 3 e 4 dell’art. 1: il comma 3 “fa salva la competenza degli stati membri di fissare il livello dei salati minimi nonché la scelta degli stati membri di fissare salari minimi legali”; il comma successivo precisa: “Nessuna disposizione della presente direttiva può essere interpretata in modo tale da imporre a qualsiasi stato membro: a) l’obbligo di introdurre un salario minimo legale, laddove la formazione dei salari sia garantita esclusivamente mediante contratti collettivi”.

Ebbene, nel nostro ordinamento giuslavoristico è consolidato un meccanismo interpretativo fondato sul combinato disposto degli art. 36 della Costituzione e 2099 del Codice Civile, che, sul presupposto della immediata precettività della norma costituzionale, rimette al giudice il compito di individuare la retribuzione conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza ivi fissati. E la giurisprudenza di ogni livello, da oltre settant’anni, individua tale livello retributivo nei trattamenti minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva di categoria. Si tratta di una prassi interpretativa così consolidata da costituire quello che i giuristi definiscono jus receptum, ossia una vera e propria norma giudica integrativa del precetto legale di fonte giurisprudenziale. Tale prassi interpretativa concerne ovviamente le ipotesi in cui il contratto collettivo non sia già direttamente vincolante fra le parti. In Italia, quindi, il salario legale non solo esiste da settant’anni ma va ben oltre le indicazioni della direttiva europea in quanto non si limita a fissare un solo limite minimo, per i lavoratori delle categorie più basse, ma fissa tanti limiti minimi per tutte le categorie, anche quelle più alte: il minimo costituzionale di cui all’art. 36, ad esempio, vale anche per quadri e dirigenti. Il sistema italiano appronta quindi per i lavoratori una tutela “legale”, addirittura di rango costituzionale, pienamente adeguata se non migliore e più efficace di quella prevista dalla direttiva europea del 2022.

Ecco perché non pochi studiosi ed osservatori, anche di ambienti sindacali, hanno a lungo guardato con scarso interesse, se non con diffidenza, all’introduzione di una legge che andasse ad incidere su questo delicato e complesso meccanismo esegetico che ha così ben funzionato per tanto tempo.

 

2. Il pdl delle minoranze sul salario minimo legale

Vediamo allora cosa prevede il disegno di legge n. 1275 presentato unitariamente, il 4 luglio 2023, alla Camera, a firma dei gruppi parlamentari di minoranza. 

 

2.1. L’estensione erga omnes della retribuzione dei CCNL.

La norma, innanzitutto, forse consapevole del fatto che la normativa italiana vigente è già conforme alla direttiva europea non vi fa alcun riferimento esplicito e non si pone quindi come attuativa della stessa. Si pone invece, espressamente come “attuazione dell’articolo 36, primo comma, della Costituzione” (art. 1) e prevede che il minimo retributivo costituzionale sia costituito dal “trattamento economico complessivo, comprensivo del trattamento economico minimo, degli scatti di anzianità, delle mensilità aggiuntive e delle indennità contrattuali fisse e continuative dovute in relazione all’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa, non inferiore, ferme restando le pattuizioni di miglior favore, a quello previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) in vigore per il settore in cui il datore di lavoro opera e svolge effettivamente la sua attività, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative a livello nazionale”.  Il pdl opera dunque, in prima battuta, un rinvio alle retribuzioni fissate, per ciascun livello di inquadramento, dalla contrattazione collettiva cd. leader di categoria con formulazione che mira chiaramente ad escludere ogni possibilità di riferimento ai cd. Contratti collettivi pirata o comunque stipulati da organizzazioni minoritarie, i quali potranno comunque essere liberamente stipulati ma dovranno prevedere retribuzioni non inferiori a quelle dei CCNL confederali. La norma, comunque, fissa un tetto minimo anche ai contratti leader in quanto subito dopo aggiunge: “Il trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL, non può comunque essere inferiore a 9 euro lordi”.

L’intervento riformatore non si limita quindi a fissare una retribuzione minima per il “lavoro povero”, così come la pubblicistica sta in questi giorni sostenendo, ma interviene a tutela di ogni tipo di lavoro, da quello povero a quello ricco, fissando il limite retributivo minimo per ogni tipo di lavoratore e di inquadramento.

La prima considerazione che si impone riguarda i dubbi di costituzionalità per un possibile contrasto con l’art. 39 della Costituzione che prevede una specifica procedura per far acquisire alla contrattazione collettiva efficacia erga omnes, posto che, come è noto, la nostra contrattazione collettiva, avendo natura privatistica, vincola solo i lavoratori e i datori di lavoro iscritti alle rispettive associazioni stipulanti. Non sono pochi gli studiosi che dubitano della compatibilità di un tale meccanismo con il disposto costituzionale e personalmente sono tra costoro. È vero che taluni interventi della Corte Costituzionale (in particolare la nota sentenza n. 51/2015 in materia di trattamento dei soci delle cooperative di produzione e lavoro) tendono ad escludere il contrasto ritenendo compatibile con l’art. 39 un rinvio operato dalla legge alla contrattazione collettiva privatistica utilizzata come mero parametro di riferimento. Non ho mai condiviso questa impostazione esegetica per i rischi che esso comporta di aggiramento della norma costituzionale. La mancata attuazione dell’art. 39 è un grave vulnus nel nostro ordinamento costituzionale che non può rimanere irrisolto all’infinito. Ma la sensazione è che, se il meccanismo introdotto nelle cooperative venisse generalizzato, sull’attuazione effettiva e completa dell’art. 39 ci metteremmo una pietra tombale. Ed è utile rammentare che il meccanismo già introdotto per le cooperative e ora oggetto di questo pdl riguarda solo la parte retributiva mentre rimarrebbe confinata nell’alveo non esteso erga omnes tutta l’altrettanto importante parte normativa dei CCNL.

Del resto se il meccanismo – così semplice - della estensione indiretta fosse stato costituzionalmente praticabile, non si comprende perché si siano attesi oltre settant’anni per attuarlo. 

Un’altra considerazione riguarda il contrasto alla cd. contrattazione pirata che appare come il vero flagello del nostro sistema di relazioni intersindacali. Il meccanismo di estensione erga omnes della parte retributiva dei contratti collettivi leader non appare idoneo a scoraggiare definitivamente i contratti pirata perché la riduzione del trattamento del lavoratore da essi operato (e che costituisce, in linea di massima, l’unica ragione per cui vengono stipulati) non viene operato solo nella parte economica ma anche (e spesso soprattutto) nella parte normativa dei contratti collettivi. Ne deriva che il pdl in esame è probabile non riesca a rappresentare, se approvato, un valido deterrente.

È infine il caso di chiarire la portata dell’impatto sociale che comporterebbe l’approvazione di questo pdl. Si è già chiarito che esso è destinato ad incidere solo in termini giuridici e non certo sui trattamenti di cui godranno nel concreto i lavoratori, specie quelli appartenenti alle fasce più deboli del mercato del lavoro che, ovviamente, attengono alla effettività della norma e dipendono dall’efficienza dell’operato degli organi ispettivi, delle strutture sindacali (specie quelle territoriali) e della magistratura del lavoro. Orbene in termini giuridici, attualmente, il nostro ordinamento, per come innanzi descritto, mediante il combinato disposto dell’art. 36 Cost. e dell’art. 2099 cod. civ., garantisce a tutti i lavoratori (anche a quelli non beneficati dalla contrattazione collettiva) un trattamento retributivo minimo sostanzialmente corrispondente a quello fissato dai contratti collettivi nazionali e, in particolare, dai contratti collettivi leader, firmati dalle confederazioni più rappresentative. Non risulta, infatti, alcun indirizzo significativo della giurisprudenza che prenda, invece, a riferimento i cd. contratti pirata. Ne consegue che il meccanismo estensivo previsto dal pdl in esame con riferimento ai CCNL leader non introdurrà significative novità. L’unica novità sostanziale sarebbe, infatti, quella introdotta dal limite minimo dei 9 euro l’ora che, però, riguarda solo quei rari casi in cui i CCNL leader fissino, per i livelli più bassi della classificazione professionale, una retribuzione oraria inferiore: secondo recenti indagini si tratterebbe di cinque soli tipi di contratti collettivi (vigilanza privata, servizi legati al turismo, tessile, trasporto merci e pulizia), quasi tutti, del resto, in via di rinnovo.

In buona sostanza, il tema appare di quelli che hanno assunto una rilevanza mediatica ben maggiore della sua effettiva rilevanza sociale. E, a fronte di questi limitati vantaggi, il pdl in esame presenta il rischio di mettere in ombra quello che è il vero tema rilevante per la vita e le condizioni dei lavoratori che è quello dell’attuazione dell’art. 39 della Costituzione e della estensione erga omnes dell’intero trattamento economico-normativo previsto dalla contrattazione collettiva cd. leader, frutto di effettive relazioni intersindacali.

Il pdl di legge sconta anche una formulazione testuale poco rigorosa sul piano tecnico e talvolta ambigua se non addirittura incomprensibile.

In particolare, l’art. 4 contiene una disposizione molto discutibile secondo cui, ove, per scadenza o disdetta, manchi un contratto collettivo da prendere a riferimento, ci si debba riferire al contratto collettivo previgente (e fin qui nulla di nuovo rispetto a consolidatissimi orientamenti giurisprudenziali) definito “prevalente” introducendo così una espressione originale e ambigua che non si sa fino a punto potrà coincidere con quella di contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, fin qui utilmente usata dalla legge (anche dal pdl in esame) e dalla giurisprudenza: un contrasto terminologico davvero inspiegabile che dovrebbe essere corretto. Così come dovrebbe essere corretto l’uso disinvolto fino a risultare ambiguo del termine “categoria” (peraltro abbinato all’aggettivo “merceologica”) e di “settore”, come se fossero sinonimi.

Davvero sconcertante, infine, il contenuto dell’art. 3. La cui formulazione testuale appare poco tecnica e spesso confusa e contraddittoria:

-        il primo comma si occupa del caso in cui vi sia “una pluralità di contratti collettivi nazionali applicabili ai sensi dell’articolo 2”, norma che tuttavia prevede un criterio selettivo finalizzato alla individuazione di un unico contratto collettivo leader all’interno di ciascun “settore”; perché mai, quindi, ve ne dovrebbero essere due? In tal caso, comunque, il pdl individua, come criterio selettivo, …. lo stesso indicato dall’art. 2 ma riferito questa volta alla “categoria merceologica”, che non si comprende bene se sia termine usato o meno come sinonimo di “settore”; ne deriva una norma oscura e forse pleonastica;

-        Il secondo comma è sicuramente pleonastico in quanto si limita a ribadire una disposizione già contenuta nell’art. 2, primo comma;

-        Il terzo comma si occupa del caso in cui, all’interno di un “settore” (?) manchi del tutto un CCNL firmato dalle OO.SS. comparativamente più rappresentative; in tal caso, esso prevede che “la retribuzione minima legale non può essere complessivamente inferiore a quella stabilita dal CCNL che disciplina, nel medesimo settore (?), mansioni equiparabili”. Sembrerebbe quindi stabilire che, se manca il contratto leader, il minimo costituzione corrisponde a quello di qualsiasi CCNL anche privo della maggiore rappresentatività comparativa; la disposizione resta comunque oscura;

-        Il quarto comma disciplina, infine, il caso in cui, nel “settore” (?), manchi del tutto un qualsiasi contratto collettivo “specifico” (?): in tal caso la retribuzione minima sarà quella “stabilita dal CCNL per il settore maggiormente affine a quello di riferimento e che disciplina mansioni equiparabili a quelle svolte nel settore privo di contratti collettivi nazionali specifici; in questo caso, la norma – che appare comunque oscura anche perché usa termini atecnici e inusuali nel diritto sindacale - non fa alcuna distinzione fra CCNL leader e altri CCNL per cui, in mancanza di altro, nella determinazione del minimo costituzionale si dovrebbe poter prendere a riferimento anche un CCNL pirata; e non è neanche chiarissimo se, in questo caso, resti fermo almeno il limite minimo orario dei 9 euro. 

 

2.2. Il trattamento minimo per i lavoratori autonomi.

Più interessante appare la parte del pdl che riguarda il lavoro autonomo e gli agenti di commercio. Per la prima volta nel nostro ordinamento la legge fisserebbe un livello minimo per i compensi di queste categorie di lavoratori.

In realtà, però, il criterio scelto per individuare tale livello minimo (in coincidenza con le retribuzioni minime dei lavoratori subordinati con mansioni analoghe) appare davvero basso, considerando che una attività autonoma comporta spese - che rimangono tutte a carico del lavoratore - e rischi specifici. Esso può solo costituire un utile deterrente contro le forme di lavoro autonomo irregolare che in realtà dissimulano un rapporto di lavoro subordinato. Il limite minimo così fissato resta peraltro di non agevole determinazione.

 

2.3. Il meccanismo di repressione delle condotte elusive.

Interessante anche il meccanismo processuale (molto simile a quello di cui all’art. 28 della L. 300/70) volto ad impedire le condotte elusive del datore di lavoro (“qualora … ponga in essere comportamenti diretti a impedire o a limitare l’applicazione delle disposizioni della presente legge”). Fa specie che lo strumento sia stato messo a disposizione degli stessi soggetti (le organizzazioni sindacali) ai quali la legge pone limitazioni (vietando alla contrattazione collettiva di scendere sotto il limite minimo). In realtà, come la stessa norma ricorda, a disposizione delle OO.SS. esiste già lo strumento della diffida accertativa ex art. 12 del D. Lgs. 124/2004, che non pare sia stato molto utilizzato.

 

2.4. Conclusioni: perché non essere più ambiziosi e puntare all’attuazione dell’art. 39?

In conclusione, il pdl 1275 presentato unitariamente dalle minoranze di sinistra (curiosamente con l’unica eccezione di Italia Viva il cui leader nel 2014 aveva fatto approvare dal parlamento una delega al governo – non attuata - che prevedeva proprio il salario minimo legale) contiene disposizioni molto enfatizzate ma dallo scarso impatto sociale e comunque scritte con tecnica poco rigorosa che merita diverse revisioni. 

D’altro canto neanche il Governo pare avere alcuna proposta alternativa e, per questo, ha passato la palla al CNEL, organo di rilevanza costituzione ma non noto per il suo attivismo, il quale, comunque, non appare la sede più inidonea ad adottare quelle decisioni politiche di grande respiro che in questa materia sarebbero necessarie.

Se i problemi da affrontare sono, da un lato, quello di combattere il “lavoro povero” fissando un limite retributivo minimo inderogabile e, dall’altro, quello di superare i limiti al campo di applicazione dei contratti  collettivi che derivano dalla loro natura privatistica, allora credo che sia arrivato il momento di porsi il problema dell’applicazione dell’art. 39 della Costituzione. L’introduzione del salario minimo legale ha un senso solo se apre (e non chiude) la strada all’attuazione dell’art. 39, come ha riconosciuto anche Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, in una recente intervista rilasciata a La Repubblica il 10 luglio scorso. Al riguardo, ad oltre settantant’anni dall’entrata in vigore della Carta Costituzionale, delle due l’una: o si procede alla sua attuazione o si mette in cantiere la sua modifica. Mantenere nella nostra Costituzione norme totalmente inattuate non giova alla credibilità del sistema né alla diffusione della cultura della legalità.

Del resto sono ormai ampiamente superate le principali ragioni della storica diffidenza delle organizzazioni sindacali. La creazione di un meccanismo legale di estensione erga omnes dell’efficacia dei contratti collettivi assicurerebbe ai lavoratori un trattamento minimo complessivo, non limitato alla sola retribuzione; esso, lungi dal ridurre il ruolo delle organizzazioni sindacali, contribuirebbe anzi a risolvere il problema della loro sempre minore capacità rappresentativa dell’insieme dei lavoratori e toglierebbe ogni spazio alla cd. contrattazione collettiva pirata. In fondo, il prezzo da pagare sarebbe solo quello di un minimo di controllo pubblico sulla democraticità degli statuti sindacali al fine di consentire una effettiva misurazione della loro rappresentatività, un passo che in un ordinamento oramai solidamente democratico, si può ormai tranquillamente compiere. 

 

Avv. Francesco Stolfa – Coordinatore Ufficio Legale ANCL

scarica articolo

Francesco Stolfa Francesco Stolfa

Condividi su Facebook
Condividi su Twitter
Condividi su LinkedIn
Condividi su WhatsApp
Condividi via e-mail